L’UFFICIO AVEVA CONTESTATO AL CONTRIBUENTE L’ESERCIZIO DI ATTIVITA DI IMPRESA IN RELAZIONE ALLA COMMERCIALIZZAZIONE ON LINE DI TELEFONI CELLULARI
I MOTIVI ADDOTTI DALL’AGENZIA DELLE ENTRATE SONO INFONDATI O INAMMISSIBILI. La Corte rigetta il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese.
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FATTI DI CAUSA
- L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale che, in accoglimento dell’appello, ha annullato gli avvisi di accertamento con cui erano state rettificate le dichiarazioni.
1.1. Dall’esame della sentenza impugnata si evince che con tali atti l’Ufficio aveva contestato al contribuente, lavoratore dipendente di un negozio di articoli elettronici, l’esercizio di attività di impresa, in relazione alla commercializzazione on line di telefoni cellulari, e recuperato le maggiori imposte non versate.
- Il giudice di appello ha accolto il gravame del contribuente evidenziando, tra le altre circostanze, che non vi era prova del fatto che le operazioni rilevate si fossero effettivamente concluse, avuto riguardo alla mancata dimostrazione degli acquisti dei beni riveduti e dell’incasso delle rilevate cessioni.
- Il ricorso è affidato a cinque motivi.
- Resiste con controricorso il contribuente.
RAGIONI DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo l’Agenzia denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione dell’art. 112 c.p.c. per “extrapetizione”, per aver la sentenza impugnato accolto l’appello del contribuente sulla base di elementi fattuali non dedotti dalla parte nel suo ricorso introduttivo, quali la prova degli acquisti dei beni rivenduti – e dei relativi costi sostenuti – e l’assenza di fatture relative alle cessioni contestate.
1.1. Il motivo addotto dall’Agenzia delle Entrate è infondato.
Il vizio di ultra o extra petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato) oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori.
Ne consegue che tale vizio deve essere escluso qualora il giudice, contenendo la propria decisione entro i limiti delle pretese avanzate o delle eccezioni proposte dalle parti, e riferendosi ai fatti da esse dedotti, abbia fondato la decisione stessa sulla valutazione unitaria delle risultanze processuali, pur se in base ad argomentazioni o considerazioni non svolte dalle parti medesime (cfr. Cass. 11 ottobre 2006, n. 21745; Cass. 31 gennaio 2006, n. 2146).
In applicazione di tali principi, deve escludersi che nel caso in esame ricorra il vizio formulato, in quanto, come emerge dalla stessa prospettazione del ricorrente, il giudice, lungi dal pronunciarsi su motivi di impugnazione non articolati o su fatti estintivi della pretesa erariale non dedotti, si è limitato a porre a base della sua decisione argomentazioni – benché non previamente sviluppate dal contribuente nei suoi atti difensivi – in ordine alle ragioni per cui la pretesa erariale non era stata dimostrata, evidenziando l’assenza di elementi di prova necessari – nel caso in esame – per la prova della pretesa erariale esercitata. 2. Con il secondo motivo la ricorrente Agenzia delle Entrate deduce la violazione degli art. 39, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, 54, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e 2700 e 2727 e ss. c.c., per aver il giudice di appello ritenuto non dimostrati i fatti posti a fondamento dell’atto impositivo, benché emergenti dal processo verbale di constatazione.
Evidenzia, in particolare, che in tale processo verbale i verificatori avevano riportato informazioni relative alla riferibilità al contribuente degli account utilizzati per la realizzazione delle cessioni contestate e che il volume delle vendite operate con tali account era stato riferito da una nota del gestore del mercato elettronico.
2.1. Anche il secondo motivo è infondato.
E’ principio consolidato quello per cui in tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione assume un valore probatorio diverso a seconda della natura dei fatti da esso attestati, potendosi distinguere al riguardo un triplice livello di attendibilità:
- a) il verbale è assistito da fede privilegiata, ai sensi dell’art. 2700 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonché quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese;
- b) quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni a lui rese dalle parti o da terzi — e dunque anche del contenuto di documenti formati dalla stessa parte e/o da terzi — esso fa fede fino a prova contraria, che può essere fornita qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice ed alle parti l’eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni;
- c) in mancanza della indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, esso costituisce comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disatteso solo in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore» (cfr., tra le altre, Cass., ord., 5 ottobre 2018, n. 24461; Cass. 24 novembre 2017, n. 28060; Cass. 20 marzo 2007, n. 6565).
Orbene, quanto alla mancata considerazione delle risultanze del processo verbale di constatazione relative alla riferibilità al contribuente degli account utilizzati per le operazioni contestate, tali risultanze costituiscono, in applicazione dei riferiti principi, meri elementi di prova che il giudice ha preso in esame, ma all’esito della valutazione complessiva degli elementi probatori, ha ritenuto che non fossero idonei a dimostrare che il contribuente medesimo avesse effettuato tali operazioni. In ordine, invece, alla omessa valutazione delle dichiarazioni del gestore del mercato elettronico, rese per iscritto a seguito di richiesta dei verificatori, la censura si presenta priva di rilevanza in quanto la mancata prova dell’effettuazione da parte del contribuente delle operazioni contestate fa venir meno l’interesse ad accertare l’ammontare degli importi di tali cessioni.
- Con il terzo motivo la ricorrente Agenzia delle Entrate si duole della violazione degli artt. 2727 e ss. e 2697 c.c., per aver la Commissione regionale ritenuto che la conclusione delle operazioni di vendita non fosse idonea a dimostrare l’avvenuta esecuzione delle stesse in assenza della prova del versamento del relativo corrispettivo, benché tale versamento dovesse presumersi secondo l’id quod plerumque accidit.
3.1. Il motivo presentato dall’Agenzia delle Entrate è inammissibile.
La Commissione regionale ha escluso la decisività dell’allegato elemento indiziario – e, conseguentemente, non ha dato ingresso all’invocata prova presuntiva – non già in ragione della irrilevanza ex se del fatto rappresentato dalla conclusione dei contratti di cessione, quanto della presenza di elementi indiziari di segno contrario, ritenuti di valenza tale da far venir meno il requisito della concordanza, necessario ai fini dell’accertamento del fatto ignoto per via presuntiva.
La censura, dunque, non coglie nel segno, in quanto omette di prendere in considerazione gli altri elementi indiziari valutati e ritenuti ostativi dell’operatività del meccanismo probatorio presuntivo.
- Con il quarto motivo l’Agenzia lamenta, con riferimento all’art. 5 del 360, primo coma, nn. 3 e 4, c.p.c., l’omesso pronuncia e la violazione dell’art. 2730 c.c., per aver la sentenza impugnata annullato in toto gli atti impositivi benché il contribuente avesse espressamente riconosciuto l’effettuazione di quattro cessioni.
4.1. Il motivo è inammissibile.
La doglianza muove dall’assunto che nel ricorso introduttivo la parte avrebbe ammesso di aver effettuato alcune delle operazioni contestate.
Orbene, le richiamate affermazioni, in primo luogo, non presentano carattere tale da costituire una confessione giudiziale, poiché non recano una esplicita dichiarazione della parte in ordine alla verità di fatti ad essa sfavorevoli o favorevoli all’altra parte (cfr. Cass. 6 giugno 2006, n. 13212, secondo cui la confessione, pur potendo desumersi da un comportamento o da fatti concludenti, non può consistere in una dichiarazione solo implicitamente o indirettamente ammissiva dei fatti in discussione; così, anche, Cass. 26 maggio 1992, n. 6301).
Le stesse, infatti, sono espresse per l’ipotesi, formulata in via subordinata dal contribuente, in cui venisse accertata la sussistenza delle contestate violazioni tributarie, al fine di ottenere una corretta rideterminazione della sua debenza.
In secondo luogo, quand’anche fosse riconosciuto e, dunque, ritenuto dimostrato, che il contribuente abbia effettuato cessioni di beni on line, ciò non sarebbe sufficiente a ritenere dimostrata la pretesa erariale, avuto riguardo alla necessità di dimostrare l’esercizio abituale dell’attività.
In ogni caso, deve rammentarsi che le ammissioni presenti negli atti difensivi, in quanto sottoscritti unicamente dal procuratore ad litem, non hanno natura confessoria, ma valore di indizi liberamente valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento (cfr., ex coeteris, Cass. 10 dicembre 2019, n. 32236; Cass., ord., 19 marzo 2019, n. 7702; Cass. 28 settembre 2018, n. 23634; Cass. 27 febbraio 2017, n. 4908).
- Con l’ultimo motivo la ricorrente Agenzia delle Entrate censura la sentenza di appello per violazione dell’art. 7, d.lgs. n. 546 del 1992, nonché l’omessa o insufficiente motivazione, per aver la Commissione regionale omesso di esercitare i suoi poteri istruttori officiosi chiedendo informazioni e chiarimenti alla Guardia di Finanza e all’operatore del mercato elettronico in ordine al numero di cessioni riconducibili al contribuente.
5.1. Il motivo è infondato.
Nel processo tributario, retto dal principio misto acquisitivo dispositivo, l’art. 7, primo comma, d.lgs. n. 546 del 1992, attribuisce alle commissioni tributarie, nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, un potere di soccorso istruttorio che, motivatamente, può essere esercitato non per supplire a carenze delle parti nell’assolvimento del rispettivo onere probatorio ma solo in funzione integrativa degli elementi di giudizio già in atti o acquisiti in quanto non sufficienti per pronunziare una sentenza ragionevolmente motivata (cfr. Cass., ord., 11 maggio 2021, n. 12383; Cass., ord., 31 luglio 2020, n. 16476; Cass. 20 gennaio 2016, n. 955; Cass. 8 luglio 2015, n. 14244).
Pertanto, il potere del giudice di disporre d’ufficio l’acquisizione di mezzi di prova non può essere utilizzato qualora la parte su cui ricade l’onus probandi non abbia essa stessa la possibilità di integrare la prova già fornita.
Orbene, poiché nel caso in esame, non viene dedotta da parte della ricorrente l’impossibilità di acquisire la prova altrimenti, la decisione della Commissione regionale di non attivare gli invocati poteri istruttori si sottrae alla censura formulata. 6. Pertanto, per le suesposte considerazioni, il ricorso non può essere accolto. 7. Le spese processuali seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
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P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso dell’Agenzia delle Entrate; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, confermando l’annullamento degli avvisi di accertamento impugnati con ricorso tributario da parte del contribuente.